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Il pensiero di Ludwig Wittgenstein si presta a un’eredità, perché Wittgenstein stesso è stato un erede: ancora più che da Bertrand Russell, ha ereditato da Gottlob Frege una visione del linguaggio che, già nel Tractatus logico-philosophicus, pubblicato per la prima volta nel 1921, modificò in modo pesante. L’avventura del pensiero di Wittgenstein è, secondo Roberto Presilla, la ricerca di una via d’uscita dalla modernità, arrivata alla sua crisi definitiva. La reazione del filosofo austriaco prende la forma di un tentativo di cura. Prima, con il Tractatus, radicale e definitivo, quasi a cercare una forma di salvezza, poi, nelle Ricerche filosofiche del 1953, più attento alla varietà e complessità dell’esperienza e a raggiungere una sorta di “salute” concettuale.
L’eredità che Presilla raccoglie da Wittgenstein non riguarda questa o quella dottrina: riguarda piuttosto la posizione che il filosofo dovrebbe tenere nell’epoca contemporanea. Il lavoro del filosofo consiste in un’indagine critica che riconduca quanto si “afferma” nel linguaggio all’esperienza umana. L’esercizio del filosofare può essere illustrato accostandolo da un lato al discernimento, dall’altro alla psicoanalisi. La “purezza” della logica è un’esigenza che ci porta nella direzione sbagliata. Allontanarsi dal terreno scabro dell’esperienza ci conduce infatti a una rarefazione nella quale il linguaggio “fa vacanza”, gira a vuoto. Ma quell’esperienza è un terreno multiforme, nel quale l’esercizio filosofico si esplica non costruendo uno sguardo dall’alto, ma nel discernimento dei casi singoli.